mercoledì 29 febbraio 2012

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE NELLA TRADIZIONE ORIENTALE di Evdokimov

La Chiesa d’Oriente si è legata in modo del tutto particolare a questo tema mettendo insieme un tesoro immenso proprio riguardo al tema della luce interiore – vita illuminativa – dell’esperienza misticaTradizione liturgicaLa seconda settimana della Grande Quaresima porta il titolo, appunto, di settimana della Luce e, in consonanza con questo nome, la Chiesa prega il Signore di “far risplendere la santificazione”. Così il tempo di quaresima, nel suo intento ascetico, ricco in modo del tutto particolare di insegnamento liturgico, si volge decisamente verso il fine stesso della vita che è indicato proprio in termini di luce. Il testo che si legge alla domenica, tratto dalla prima lettera di san Pietro, prepara già all’iniziazione:
E fu rivelato ai profeti che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo (1Pt 1,12).
Ma, come recita un’antica preghiera liturgica, davanti a questo mistero, gli angeli “colti dal più profondo stupore si velano il volto”.
Nel corso della liturgia si ascolta l’invocazione del celebrante: “fa’ risplendere il tuo volto su quelli che si preparano alla santa illuminazione, rischiara il loro spirito”. Questo testo rimanda ai primi tempi della Chiesa in cui il battesimo, si chiamava: “sacramento dell’illuminazione” e i nuovi venuti alla fede portavano il nome di “illuminati”.
Se un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore (Ef 5, 8).
Nel Battesimo l’uomo si fa adottare dal Padre, il Figlio prende il posto dell’uomo affinché l’uomo prenda il posto del Figlio e così venga illuminato, introdotto cioè nella Luce della comunione del Padre e del Figlio, veramente “figlio della luce”. Se la prima settimana di Quaresima è consacrata al “trionfo dell’ortodossia”, la seconda – detta della Luce – non fa che esplicitare l’essenza di questo trionfo e canta la grande esperienza ortodossa della Luce divina. Nelle celebrazioni si commemorano i Dottori della Chiesa che parlano di questa Luce: il più grande tra loro è il vescovo di Tessalonica, san Gregorio Palamas[1]. Il Sinassario lo indica come “il luminoso dottore della Grande Luce”La dottrina di san Gregorio Palamas
Nel suo Dialogo Théophanès, san Gregorio si sofferma sulla parola di san Pietro (2Pt 1, 4) che è una parola fondamentale per la spiritualità ortodossa in quanto indica nel modo più esatto il fine ultimo di ogni vita cristiana: perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, che la Tradizione preciserà nei termini di “partecipi della Luce divina”. È uno dei testi più paradossali contenuti nelle Scritture che , quando si cerca di attenuarne la portata paradossale, piomba in inestricabili difficoltà teologiche. San Gregorio lo percepisce in modo ammirabile quando fa notare:
La natura divina deve essere definita al contempo impartecipabile, totalmente inaccessibile e, in un certo senso, partecipabile. Bisogna che si affermino le due cose contemporaneamente e che si mantenga la loro antinomia come un criterio della pietà.
Il criterio non è logico ma il frutto dell’evidenza che sgorga dal testo biblico colto nel contesto dell’esperienza ecclesiale:
Dal momento che le due affermazioni sono vere si può affermare sia una cosa che l’altra; quanto al fatto che le affermazioni si contraddicano questo è il sentire di uomini completamente privi di intelligenza.
Difatti tutte le soluzioni logiche si rivelano false: essere partecipi della natura divina in un senso immediato equivarrebbe a diventare Dio, mentre l’essenza divina è radicalmente inaccessibile: unirsi a una delle Ipostasi è impossibile poiché l’Incarnazione di Cristo rimane un caso unico; unirsi ad una potenza creata da Dio (anche quando la si chiama grazia) non è certo la comunione con Dio stesso.
La questione non è per nulla astratta e sta invece al cuore della fede: la comunione tra Dio e l’uomo è reale oppure no? La Luce in quanto comunione è, in quanto tale, alla portata dello spirito umano? L’Ortodossia afferma la semplicità assoluta di Dio – all’interno della vita stessa di Dio non c’è alcuna separazione o divisione – ma riconosce la distinzione delle Tre Persone Divine e “la differenza dei modi d’esistenza” in sé e nel mondo. Dio è presente nel mondo per mezzo delle energie divine o della grazia. Queste energie non sono una particella dell’essenza divina ma, al contempo, non sono separate da essa. Dio vi è interamente presente e sono proprio queste energie ad essere conoscibili, accessibili e comunicabili all’uomo. Esse appartengono a tutte le Tre Persone e portano il nome di Sapienza, Gloria, Vita... Sono proprio queste energie a riempire il Tempio dell’Antico Testamento, è in esse che Dio si mostrava ai Giusti, si tratta della luce increata del Tabor ed è la grazia che deifica i santi della Chiesa. Così la comunione più reale non è né sostanziale né ipostatica ma “energetica”. Quando Cristo dice: noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 23) non è l’essenza di Dio che si sposta per venire verso l’uomo ma si tratta delle Tre Persone che attraverso le energie si fanno presenti nell’uomo.
Queste precisazioni offerte dal “dottore luminoso” chiariscono il frutto infinitamente prezioso dell’Espiazione che rappresenta il grado sommo della comunione tra Dio e l’uomo di cui parla san Pietro. Questa via di elevazione costituisce la stessa essenza della vita ecclesiale che l’Ortodossia, al punto più alto della sua teologia, definisce come “théosis/divinizzazione” e, in termini mistici, indica come “illuminazione”: Dio discende apparendo nell’interiorità dell’uomo per illuminarvi tutto il suo essere. Si tratta del medesimo contenuto indicato dalla teologia biblica della Presenza o della Luce.

L’insegnamento patristico
L’insegnamento liturgico e patristico sin dagli inizi mette in rilievo il fatto che la Luce non si da alla sola comprensione né alla semplice contemplazione ma alla vita. Qui “la ragione non trova né parole né pensieri” (san Gregorio) e resta racchiusa nell’indicibile. In merito san Gregorio, commentando il testo di Platone secondo cui “lo stupore è l’inizio della sapienza”, indica il solo atteggiamento corretto: “sperimentando la luce dentro di sé, l’intelligenza rimane stupita”.
Pur non essendo né sensibile né intelligibile, nondimeno la luce penetra tutto intero l’uomo illuminandone tutte le sue facoltà, ma non si offre nella sua realtà di grazia se non allo stato mistico e alla vista interiore. Questo stato non è per nulla un’esaltazione repentina e passeggera e, pur essendo inesprimibile in quanto esperienza, rimane comunque uno stato di partecipazione abituale: “la semplicità primitiva della conoscenza cristiana” (san Serafino[2]) al di sopra di ogni forma e di ogni concetto. La luce si erge come principio stesso dell’esistenza e, misticamente, essa è ciò che si vede e ciò attraverso cui si vede: rappresenta l’organo della comunione e la sostanza della comunione.
Per opera della luce l’uno comincia ad esistere per l’altro, o ancora come dice san Simeone, essa è “il pane, la camera nuziale, lo sposo, l’amico, il fratello, il padre”. Apparentata alle operazioni dello Spirito Santo, la luce è la venuta della parusia nell’anima che la trasforma in questa venuta. Se gli angeli sono le “seconde luci” (phosphoros-Lucifer) poiché riflettono Dio e la sostanza del mondo spirituale di cui si nutrono, “gli apostoli superano gli stessi angeli poiché illuminano le potenze celesti” (san Gregorio). La scienza mistica introduce sperimentalmente in questa grande verità: non si è “seconda luce” perché si riflette la Luce, ma la si riflette perché si è “simili” e quindi si viene come trasmutati in luce. La trasfigurazione di Cristo ha fatto sgorgare la luce increata del Tabor, infatti si tratta non della trasfigurazione del Signore ma degli apostoli: “Attraverso la trasmutazione dei loro sensi, gli apostoli passano dal regime della carne a quello dello Spirito” (san Gregorio) e, per questo, contemplano la luce eterna della divinità senza il velo della kenosis. L’illuminato è colui che “è unito alla luce e, con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nascosto a quanti non hanno questa grazia” (san Gregorio).
Mosè scendendo dal Sinai è obbligato a coprire con un velo il suo volto raggiante. La comunione con Dio, infatti, lo segna della sua stessa luminosità e, mutando le apparenze materiali, indica come il senso nascosto della parola – Voi siete la luce del mondo (Mt 5, 14) o Risplenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5, 16) – non è per nulla allegorico:
Dio è luce e quanti sono resi da lui degni di vederlo, lo vedono come Luce; coloro che lo hanno ricevuto, lo hanno ricevuto come Luce... che illumina... e trasforma in luce coloro che illumina (san Simeone).
La preghiera di Prima dice così:
O Cristo, Luce vera, che illumina e santifica ogni uomo che viene nel mondo: la luce del Tuo volto risplenda su di noi perché nella sua luce possiamo vedere la Luce inaccessibile.
La Théotokos liturgicamente porta il nome di “Madre della Luce”, e l’Apocalisse ci fa contemplare l’immagine della donna vestita di sole. E san Giovanni dice: Saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3, 2). E in quel giorno i giusti risplenderanno come scintille (Sap 3, 7).
Se l’ateismo non è altro che sordità spirituale esso allora è anche oscurantismo ostinato per cui si comprende come non è solo una metafora il modo di dire: “l’immagine di Dio si è oscurata nell’uomo”. L’immagine velata, l’icona annerita rappresenta l’eclisse della presenza di Dio e l’allentamento dei legami della comunione con lui. Questo è l’aspetto più toccante nella parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte. Queste vergini sono in attesa della Storia e tengono in mano le lampade “ardenti di luce”. Il commento liturgico della parabola sottolinea che non si tratta della verginità: infatti alle stolte la verginità non serve a nulla. San Giovanni Crisostomo fa notare il gioco significativo della parola greca eleos: olio, ma anche carità. Un’antica icona segue questa tradizione raffigurando le vergini che portano tra le mani il loro cuore: la luce è quindi quella della comunione. Solo la luminosità dell’essere umano, la sua apertura alla comunione è capace di forzare la porta del Banchetto e spiega il senso evangelico della violenza che esige la ricerca del Regno di Dio. Solo la luce conquista la Luce e ciò avviene in modo reciproco come dice il grande asceta San Diadoco: “il fuoco della grazia penetra nel cuore e lo trasforma in luce”.
Da parte sua, san Giovanni Crisostomo, commentando le parole del Cantico dei cantici:
Forte come la morte è l’amore, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore (Ct 8, 6),
afferma questa verità assai sconvolgente secondo cui Dio è presente nella stessa sostanza delle cose. Si tratta dello stesso gioco reciproco delle luci. In effetti, ogni amore umano sembra essere una risposta sempre inadeguata alla chiamata di Dio. Una capacità di presenza permette comunque di rimanere nel raggio della chiamata: essere attento, infatti, dipende dall’uomo. Pur essendo un essere senza più risorse, povero e nudo, nondimeno ha sempre qualcosa da dare. Questo perché l’Altro divino è implicato nella situazione dell’uomo. Cosicché, se l’atto emana dall’uomo, la sua fonte è ben più profonda. Il dono della vita che viene da Dio diventa dono di sé attraverso un’esistenza donata agli altri. La presenza di Dio in quanto “terzo” presente in ogni comunione fa scattare il movimento verso questo dono e, alla fine, vi è lo scoccare della luce, con la venuta dell’amato.L’ascensione dei santi
Presso i mistici l’elevazione dell’anima è indicata dall’acquietarsi di ogni movimento, persino la preghiera cessa e l’anima si ritrova a pregare “al di fuori della preghiera”. Si tratta del grande silenzio che si crea nel momento in cui la luce scende nel cuore facendone la sua dimora: è 1’illuminazione interiore che è il frutto dell’approfondimento ultimo della grazia battesimale nella sua forma di grande luce apparsa presso il Giordano. L’antica tradizione della preghiera continua fa parte della stessa esperienza. Il nome di Gesù risuona incessantemente nell’anima e l’energia della presenza che, attraverso l’invocazione del nome si radica e si trasfonde nella persona che prega, tutto l’essere umano non fa che essere trasformato in questa presenza. L’“esicasmo”[3] viene definito quale metodo di silenzio e di interiorizzazione e si presenta come arte e scienza della luce. I “perfetti” attingono da questo insegnamento e “vengono istruiti nelle realtà divine non solo attraverso la parola ma – misteriosamente – attraverso la luce della parola”. Si tratta dello stato carismatico vissuto sotto il segno delle Spirito Santo che viene chiamato “portatore della Luce” e ancora “donatore della Luce”. San Macario precisa: “La luce è illuminazione attraverso la potenza dello Spirito Santo”. L’azione pneumatica si esprime sempre in termini di luce. San Gregorio Palamas aggiunge che tra le diverse forme di manifestazione dell’energia divina – che è una sola e raccoglie l’azione delle Tre Persone – indubbiamente quella della luce è centrale.
Ma la regola ascetica combatte fortissimamente contro ogni tentazione di visione ottica. La luce può materializzarsi, ma l’essenziale non è in questo, ma altrove e la sua visibilità non è che una fenomenologia possibile. Essere nella luce, infatti, significa essere in comunione e vedere dal di dentro le icone degli esseri e delle cose. L’ascetica pone una costante attenzione alla purezza di cui parla il Vangelo di san Matteo:
La lucerna del corpo è l’occhio, se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce (Mt 6, 22).
Svuotarsi della propria oscurità per farsi inondare dalla luce è la grandiosa lotta che si persegue per tutta la durata della vita e che prepara l’inabitazione di Dio. In questo cammino il pane amaro di ogni istante è la morte dell’uomo vecchio che è in noi. Vista dal basso della vita quotidiana si tratta di una tensione mai allentata, mentre, dal punto di vista dell’alto, è proprio la luce della Presenza.
L’occhio, quale lucerna del corpo, scopre la Comunione dei santi nel peccato; l’anima attraversa il Calvario e si eleva a quest’altra visione che la rende nuda di ogni giudizio: “Stendi sul peccato del tuo fratello il manto del tuo amore”; “la purezza del cuore consiste nell’amore verso i fratelli che cadono”. La comunione si amplifica! È come se l’uomo “cadesse in alto” per raggiungere così il livello del cuore divino. L’anima è sempre più avvolta dalla Presenza. Nella cella segreta dell’uomo interiore risuona la voce: “Sei diventata bella avvicinandoti alla mia Luce”. Nel cammino di santità si tratta di ben altra cosa che raccogliere informazioni su Dio: “La scienza diventa Luce”. Ecco un testo sublime di san Simeone:
Spesso vedevo la Luce. Talvolta mi appariva nella mia stessa interiorità... o meglio non mi appariva che da lontano... Così Tu, Invisibile... presente in ogni cosa, Tu scomparivi e Tu mi apparivi di giorno e di notte. Lentamente tu dissipavi la tenebra che era dentro di me... Infine, avendomi fatto quello che Tu volevi, Tu ti rivelasti alla mia anima ormai lustra, venendo a me, ancora invisibile. E improvvisamente Tu apparisti come un Sole. Oh, ineffabile condiscendenza divina.
L’anima trasformata in colomba di luce sale continuamente e ogni acquisizione non è che un punto di partenza, grazia su grazia. Il tempo sprofonda nell’eternità quando Dio viene nell’anima e l’anima emigra in Dio. Nel celebre dialogo di san Serafino di Sarov con Motovilov, abbiamo l’esatta descrizione di questa esperienza. Interrogato su quello che è lo stato di coloro che vivono nello Spirito, san Serafino così risponde al suo interlocutore:
– Amico di Dio, siamo entrambi nella pienezza, dello Spirito Santo. Perché non mi guardi?
– Non posso, Padre. Dei lampi brillano nei suoi occhi, il suo volto è diventato più luminoso del sole. Mi fanno male gli occhi.
– Non avere paura, amico di Dio; anche tu sei diventato luminoso come me. Anche tu adesso sei nella pienezza dello Spirito Santo, altrimenti non avresti potuto vedermi.
– A queste parole alzai gli occhi sul suo volto ed una paura ancora più forte si impadronì di me. Provate ad immaginarvi un uomo che vi parla mentre il suo volto è come in mezzo al sole di mezzogiorno. Riuscite a vedere le labbra che si muovono e l’espressione del volto che cambia: riuscite a sentire il suono della sua voce, avvertire le sue mani che vi stringono le spalle, ma nello stesso tempo non potete scorgere né le sue mani né il suo corpo né il vostro: nient’altro che luce sfolgorante che si diffonde all’intorno, a diversi metri di distanza, rischiarando la neve che copriva il prato e che continuava a cadere su di me e sullo staretz...[4]
In questi termini una persona santa ci mostra in una maniera che si potrebbe definire empirica il Sole, inaccessibile ma così prossimo, dell’Amore Dio e ce lo fa contemplare in mezzo ai suoi raggi che lo circondano e che sono i giusti e i santi.
Di questo amore Dante, nel suo Paradiso, racconta:
Nella profonda e chiara sussistenza
Dell’alto lume parermi tre giri
Di tre colori e d’una contenenza;
e l’uno dall’altro come iri da iri
parea reflesso,
Non era altri che
L’Amor che move il sole e l’altre stelle.

Tratto da: P. EVDOKIMOV, Il roveto che arde, Milano 2007, 56-69.
[1] Per approfondire vedi: J. Meyendorff, San Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Milano 1997.[2] Per approfondire vedi: I. Gorainoff (edd), Serafino di Sarov, Vita, colloquio con Motovilov, insegnamenti spirituali, Milano 2002.[3] Per approfondire vedi: J.Y. Leloup, L’esicasmo, Che cos’è, come lo si vive, Milano 1992; e A. e R. Goettmann, Preghiera di Gesù, preghiera del cuore, di Milano 1998.[4] I. Gorainoff, Serafino di Sarov, op. cit., p. 177.

sabato 25 febbraio 2012

Dalla STORIA DELLA CHIESA Il Concilio NICEA II (787) e Il trionfo dell'Ortodossia e il Synodikon

La morte dell'imperatore Costantino V e il regno tollerante del figlio e succes­sore Leone IV Casaro (775-780), segnano una svolta nella storia del conflitto ico­noclasta. Leone IV, nel 780 lasciò il trono al fi­glio minore Costantino VI e gli affari dello Stato passarono nelle mani del­l'imperatrice Irene, iconodula dichiarata.

La politica di Irene, imperatrice reggente

Irene non voleva provo­care l'onnipotente partito iconoclasta, per cui avanzò a piccoli passi. In un primo tempo difese la libertà assoluta in materia di immagini, cosa che permise il ritorno degli iconofili esiliati. Poi procedette a dei cam­biamenti discreti, sosti­tuendo le personalità amministrative apparte­nenti al partito ico­noclasta, con degli iconofili. Quando si sentì abba­stanza forte, fece nominare patriarca di Costantinopoli l'i­conofilo Tarasio (784). Questi, nella sua lettera di intronizzazione, sconfessa le decisioni di Hieria e chiede l'invio di rap­presentanti per riunire un con­cilio ecumenico. Nello stesso tempo, I'imperatrice Irene indi­rizza una lettera al papa Adriano I (772-795), chie­dendogli di par­teci­pare al prossimo concilio.
Adriano rispose imme­dia­tamente con una lettera nella quale espose, da una parte, le opinioni or­to­dosse di Roma in materia di immagini; ma anche le idee del papato a proposito del primato papale, nonché dei legami che uni­scono l'ege­monia papale e lo Stato franco. I latori della lettera, due pre­sbi­teri tutti e due di nome Pietro, da alcuni storici vengono con­si­derati anche come i legati papali al concilio. Ma Teodoro Studita fa notare come quelle persone non fossero desi­gnate dal papa come propri rappresentanti. La rap­presentanza degli al­tri patriarchi è anch'essa dubbia.
Tarasio scrisse delle lettere che mandò, tramite i pro­pri messaggeri, in Siria, in Palestina e in Egitto. I messaggeri non pote­rono giungere a destinazione perché vennero in­tercettati dai monaci siriani i quali, te­mendo di essere accusati dagli arabi di collaborazione con Bisanzio, non li fe­cero passare. Da parte loro i monaci scel­sero due persone, un certo Giovanni e un certo Tommaso che par­teciparono al concilio come rappresentanti di Antiochia e di Alessandria. Pare però che nessuno li avesse delegati. Per tutti que­sti motivi, il carattere ecu­menico del con­cilio venne messo in dubbio da più di uno studioso.

Il concilio di Nicea II

Il concilio si riunì nel 786, sotto la presidenza del patriarca Tarasio, nella chiesa dei Santi Apostoli di Costantinopoli.
Anche Irene e il figlio Costantino VI si pre­sentarono per seguire i lavori. Malgrado la lunga preparazione, quasi tutti i ve­scovi presenti erano icono­clasti. Conoscendo l'atteggiamento imperiale a favore delle immagini, questi vescovi, aiutati anche dal partito iconocla­sta, informarono la guardia imperiale dominata, come tutto l'e­sercito, dallo spirito icono­clasta. Appena il sinodo fu iniziato, i soldati penetrarono nella chiesa e dispersero i par­tecipanti. Tutto era da rifare.
Irene sciolse l'esercito iconoclasta. Tuttavia, non sentendosi si­cura, trasferì il concilio a Nicea, (II di Nicea, VII concilio ecume­nico). I lavori ripresero, sotto la presidenza di Tarasio, nel settem­bre 787. Parteciparono ai lavori 350 vescovi, due rappresentanti del papa, i due di Antiochia e di Alessandria, due alti funzionari dell'ammini­strazione, nonché i rappresentanti dell' imperatore. A Nicea si tennero sette sedute, mentre l'ottava ebbe luogo a Costantinopoli.
Nella prima sessione (14 settembre 787) fu esami­nato il caso dei ve­scovi che ave­vano aderito all'iconoclastia e si procedette alla loro ammissione nella comunione ecclesiastica. Nella seconda sessione (26 settembre) furono lette e appro­vate le lettere di papa Adriano I. Vi si legge, tra l'altro, la se­guente affer­ma­zione: «I cri­stiani non testimoniano il loro rispetto ai le­gni e ai colori, ma a quelli di cui le imma­gini recano il nome». Nella terza sessione (28 settembre) furono esaminate e appro­vate le lettere di adesione dei patriarchi orientali. Vi si legge tra l'altro: «Noi ado­riamo l'immagine di Cristo, cioè della persona che hanno visto gli uomini e che non è sepa­rata dalla sua divinità invisibile», cosí come quella della Vergine e dei santi.
Nella quarta sessione (1° ot­tobre) fu letto un dos­sier di testi scritturistici, patristici e agio­gra­fici circa il culto delle im­magini. Il patriarca di Costantinopoli Tarasio disse in proposito: «L'Antico Testamento aveva già i suoi divini simboli, i cherubini ad esem­pio, che di là sono passati al Nuovo Testamento; e se l'Antico Testamento aveva dei cherubini, che estendevano la loro ombra sul trono della grazia, dobbiamo avere an­che noi le icone di Cristo, della Madre di Dio e dei santi, che proteggono con la loro ombra il nostro trono della grazia», cioè l'altare.
Nella quinta sessione (4 ottobre) si continuò a leggere le testimonianze pa­tristiche e a rilevare le falsifica­zioni operate dai padri del Concilio di Hieria del 754.
Negli Atti, si legge la seguente dichiarazione di Eutimio, vescovo di Sardi: "Accettiamo tutto ciò che il Signore, gli apostoli e i profeti ci hanno in­segnato, che dob­biamo cioè onorare e lodare prima di tutto la Santa Madre di Dio, superiore a tutte le potenze celesti; poi i santi angeli, i beati e lo­dati apostoli, i gloriosi profeti, i martiri che hanno lottato per Cristo, i santi dot­tori e tutti i santi, alla cui intercessione dobbiamo ri­correre, la quale può ren­derci accetti a Dio, se viviamo in una maniera virtuosa e osserviamo i suoi comanda­menti. Veneriamo inoltre la forma della croce e le reliquie dei santi; accettiamo e salutiamo e baciamo le sante e venerate immagini, in conformità all'antica tradi­zione della santa Chiesa cattolica di Dio* affinché queste riproduzioni ci richia­mino l'originale, e siamo condotti ad una certa partecipa­zione della loro santifica­zione".
In questa stessa sessione fu chiesto e ottenuto il ripristino dell'uso antico di portare in processione liturgica le icone, tradi­zione, questa, che era stata sop­pressa dagli iconoclasti. Nella sesta sessione (6 otto­bre) fu letto e refutato l'Horos, o definizione dogma­tica, dell'as­semblea eretica di Hieria e fu lanciato l'anatema contro i suoi au­tori.
La settima sessione (13 ottobre) fu comple­tamente consa­crata alla stesura dell'Horos, o definizione dogmatica conciliare, la quale legittima la raffigurazione religiosa e il culto delle immagini. Si riferisce qui il testo della parte centrale:
"Procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi pa­dri e la tradizione della chiesa cattolica - ri­conosciamo, infatti, che lo Spirito santo abita in essa- noi definiamo con ogni rigore e cura che, a somi­glianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le vene­rande e sante immagini, sia di­pinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono es­sere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l'immagine del signore Dio e salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell'immaco­lata signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giu­sti. Infatti, quanto più frequentemente queste im­magini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli origi­nali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, di una vera adorazione (latria), riservata dalla nostra fede solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della croce preziosa e vivifi­cante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onoran­doli con l'offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli anti­chi. L'onore reso al­l'immagine, in realtà, ap­partiene a colui che vi è rappre­sentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è ripro­dotto. Così si rafforza l'inse­gnamento dei nostri santi padri, ossia la tra­dizione della chiesa universale, che ha ricevuto il Vangelo da un confine al­l'altro della terra. Così diventiamo seguaci di Paolo, che ha parlato in Cristo, del divino collegio apostolico, e dei santi padri, tenendo fede alle tradizioni che ab­biamo ricevuto. Così possiamo can­tare alla chiesa gli inni trionfali alla maniera del profeta: Rallegrati, figlia di Sion, esulta figlia di Gerusalemme; godi e gioisci con tutto il cuore il Signore ha tolto di mezzo a te le iniquità dei tuoi avversari, sei stata liberata dalle mani dei tuoi nemici. Dio, il tuo re, è in mezzo a te; non sarai più oppressa dal male e la pace dimori con te per sempre. Chi oserà pen­sare o insegnare diversamente, o, se­guendo gli ere­tici empi, vio­lerà Ie tradizioni della chiesa o inventerà delle no­vità o ri­fiuterà qualche cosa di ciò che e stato affi­dato alla chiesa, come il Vangelo, la raffigura­zione della croce, immagini dipinte o le sante reli­quie dei martiri; chi immaginerà con astuti rag­giri di sovvertire qual­cuna delle legittime tradizioni della chiesa universale, o chi userà per scopi pro­fani i vasi sacri o i venerandi monasteri, noi decretiamo che, se vescovo o chierico, sia depo­sto, se monaco o laico venga escluso dalla comunione.
Anatemi riguardo alle sacre immagini
I - Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, è limitato se­condo l'uma­nità, sia anatema.
II - Se qualcuno non ammette che i racconti evangelici siano tra­dotti in imma­gini, sia anatema.
III - Se qualcuno non onora queste immagini, [fatte] nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema.
“L'onore reso all'immagine si prosterna da­vanti alla per­sona di chi in essa è raffigurato: le immagini non possie­dono dunque una pro­pria forza per la quale sa­rebbero da venerare; l'onore prestato a esse si riferisce a ciò che rappresen­tano”.
L'ottava e ultima sessione ebbe luogo il 13 ottobre, nel pa­lazzo imperiale della Magnaura, nella stessa Costantinopoli.
Vi fu letto solen­nemente l'Horos e firmato in presenza di un grande concorso di po­polo. Al termine dei lavori, pre­sieduti dalla stessa imperatrice Irene, gli imperatori firmarono solennemente le deci­sioni del conci­lio, che ap­punto rigettava la decisione del sinodo di Hieria e ac­cettava la rappre­senta­bilità del sacro e la venerazione delle icone.
Questa fede or­todossa era stata esposta durante la se­conda seduta da un gruppo di 117 mo­naci e igumeni. Questa di­chiara­zione, combinata con la teologia di Giovanni Damasceno, co­stituisce in realtà la di­chiarazione del concilio in materia dottri­nale. La cosa più spettacolare fu, tuttavia, la totale mancanza di re­azione da parte degli iconoclasti. Un certo numero di vescovi ave­vano partecipato, I'anno prima, anche alla riunione di Costantinopoli e in quell'oc­casione si erano dichiarati iconoclasti ed erano stati fautori di disordini. Pare che Irene mettesse costoro di fronte ad un dilemma: o rimanevano della loro opinione e in questo caso dovevano abbando­nare i loro vescovadi, o si dovevano 'pentire' e, 'una volta perdonati', potevano partecipare al sinodo, conservando però un saggio silenzio.

L'opposizione dei Franchi

Sottoscritti dai vescovi, dai le­gati papali e dagli imperatori, i decreti furono però approvati da papa Adriano I solo nel 791, ra­gione non ultima l'ostilità verso quel concilio da parte dei Franchi e per rivalità politica e per una diversa teologia sulle im­magini. Mentre presso la corte Franca, ostile alla chiesa bizantina, maturò anche una confuta­zione chiamata Capitulare de immaginibus, nota sotto il nome di Libri Carolini.
Nella Capitulare si condannava il conciliabolo di Hieria, del 754, che aveva proibito la rappresenta­zione delle immagini di Cristo -dicendo che solo l'Eucarestia è la vera immagine- e della Vergine e aveva minacciato severe puni­zioni a chi avesse fabbricato o venerato le icone. Ma si riprovava anche al Concilio di Nicea II di aver usato termini non adeguati, come proskìnèsis, tradotto con adoratio, anziché venera­tio, per indicare il culto di dulia delle immagini.
Papa Adriano I, da parte sua, difese le decisioni del concilio Niceno II, ma un concilio di ve­scovi dei regni franco e longobardo, convocato da Carlo Magno nel giugno 794 a Francoforte, condannò quel concilio ecumenico, in particolare quel che riguarda la rela­zione tra icona e persona rappresentata, quasi avesse pre­scritto l'adorazione delle immagini. Papa Adriano rimase tuttavia saldo nell'ac­cettazione di Nicea, ma il sinodo di Francoforte costituì un serio avvertimento per il papato riguardo alle sue relazioni privi­legiate con lo Stato franco.
Per la Chiesa orientale greca invece quel concilio signi­ficò la conclusione del suo sviluppo teo­logico e la pace religiosa.
Base dell'iconoclastia era la nega­zione della vera cristologia che si ap­pone al docetismo (la dot­trina di Cerinto, un rigido giudaista vis­suto nell'Asia minore sullo scorcio del I sec. e degli gnostici i quali negavano la vera natura umana del Redentore e la sua iden­tità col Cristo storico; per loro il Redentore si fece uomo in ma­niera doce­tica, cioè con un corpo puramente apparente, abbando­nato al momento della passione) e al monofisismo (dottrina che, dopo l’incarnazione, ammette in Cristo un'unica natura, per cui il corpo di Cristo è un corpo di­viniz­zato). Ma anche contro ogni concezione di Dio mu­sulmana e tra­scen­dentalista, negatrice della visibilità dell'Incarna­zione, dei sacramenti e della Chiesa. Da qui il valore dogmatico delle icone che aiutano a com­prendere la rela­zione tra Dio e l'uomo.

Il trionfo dell'Ortodossia

Agli inizi dell'800 riprese la lotta iconoclasta, colpa degli ul­traortodossi di Costantinopoli che si raccoglievano attorno a Teodoro, igumeno del mo­nastero di Stoudios, i quali accusarono Irene di una politica troppo indulgente nei confronti degli icono­clasti.
Malgrado Irene venisse rovesciata dal trono, il sinodo tenuto a Costantinopoli nell'809 sotto l'imperatore Nicetoro I, condannò gli ultraortodossi e l'imperatore mandò in esilio gli studiti. Questi vennero amnistiati sotto Michele I (811-813), ma la si­tuazione volse al peggio per gli ortodossi.
Leone V (813-820), detto l'Armeno, Fu un abile generale sotto gli imperatori Nicetoro I e Michele I, constatando che lo Stato e soprattutto l'e­sercito andavano di male in peggio sotto gli ico­nofili, si volse al partito icono­clasta e il patriarca Niceforo fu co­stretto a dare le dimissioni. Salì al trono grazie a una rivolta militare, e fu lui a deporre Michele I nel 813. Era convinto che la situazione in cui versava l'impero e gli insuccessi militari non dipendessero dall'incapacità dei generali e dei loro condottieri, ma dalle troppe concessioni che furono fatte al culto delle immagini.
Nel 814 difese con successo Costantinopoli da una invasione bulgara; nello stesso anno promuovette anche un concilio in cui depose il Patriarca di Costantinopoli in carica: Niceforo I, sostituendolo con uno maggiormente favorevole a lui e alle sue idee iconoclaste. Dall'emissione del conseguente nuovo editto iniziò un nuovo periodo di persecuzioni religiose nell'impero. Stando ad una let­tera indirizzata dall'imperatore Michele II a Ludovico il Pio (824) Leone V nell'813 aveva proibito le icone nei punti accessibili delle chiese, perché la gente pre­stava loro una vera ado­razione. Si tratta in questo caso della prima conces­sione fatta agli iconoclasti. Poiché gli iconofili reagirono, facen­dosi forti delle de­cisioni del conci­lio di Nicea, Leone V convocò nell'815 un concilio nella chiesa di Santa Sofia e questo concilio, dopo aver an­nullato le decisioni di Nicea, rimise in vigore quelle del sinodo di Hieria. L'iconoclasmo venne rilanciato e Teodoro Studita si pose alla testa della op­posizione ortodossa. Morì nel Natale del 820, in un complotto organizzato da Michele il Balbo che gli successe sul trono dopo averlo ucciso.
L'imperatore Michele II Balbo (820-829) dapprima volle ri­manere im­par­ziale: annullò le decisioni del sinodo di Hieria, del si­nodo dell'815, ma anche del concilio di Nicea e proibì qualsiasi di­scussione a propo­sito delle icone. Più tardi, però, favorì gli icono­clasti, e così fece anche il figlio e successore Teofilo (829- 842), che addirittura perse­guitò gli iconofili e fece chiudere gli studi di pittura delle icone. Ma l'iconocla­smo aveva perduto qualsiasi se­guito tra il popolo.
Così, sotto Michele III (842-867), che aveva ereditato il trono al­l'età di ap­pena tre anni, la ma­dre dell'imperatore, Teodora, dive­nuta reggente, fece restau­rare le im­magini e favorì l'elezione di s. Metodio, un iconofilo come patriarca il quale, l'11 marzo 843, in­disse un sinodo che condannò l'iconoclasmo; mentre la reggente, con un decreto, ripristinò definitivamente l'Orto­dossia.
La Chiesa bi­zantina festeggia ancora oggi questo avvenimento ogni anno, nella ricorrenza della prima domenica di Quaresima detta, per questo, «domenica dell'Ortodos­sia». La com­memorazione è sotto­lineata da una solenne processione con le icone. Il proprio della fe­sta è parti­colarmente solenne ed i testi sono di una rara bellezza formale e con­cettuale. Il «Synodikon» che vi viene solenne­mente letto esalta la vitto­ria della Chiesa sugli iconoclasti, rende onore a tutti quelli che l'hanno resa possibile e anatematizza tutti gli ere­tici, considerati come nemici della fede e della Chiesa.
Ecco due brani tratti da altrettanti inni del Proprio della do­menica dell'Or­todossia:
«La Chiesa di Cristo ha accolto, nelle sante icone di Cristo Salvatore, della Madre di Dio e di tutti i santi, un inestimabile orna­mento. Per la loro festosa esposi­zione, essa splende e si ve­ste di grazia e mette in rotta la turba degli ere­tici e, con giubilo, rende gloria a Dio, l'Amico degli uomini, che per lei ha sop­portato volonta­riamente la passione».
L'altro dice:
"Noi che siamo passati dal­l'empietà alla pietà, e che siamo stati illuminati dalla luce della conoscenza, bat­tiamo le mani, offrendo a Dio un canto di azione di grazia; e veneriamo con onori le sante icone di Cristo, della Tuttapura e di tutti i santi, siano esse raffi­gurate sui muri, o sulle tavole o sui vasi sa­cri, respingendo l'empietà di coloro che non possiedono la vera fede. L'onore, infatti, reso all'imma­gine -dice Basilio- passa all'originale. Per l'intercessione dell'Immaco­lata tua Madre e di tutti i santi, ti chiediamo, o Cristo Dio, di donarci la grande misericor­dia ".
La lunga controversia sulle immagini si era svolta mentre l'impero era sotto la minaccia degli Arabi e fu nefasta tanto per l'Oriente, dove gli iconofili furono perseguitati e alcuni subirono il martirio; quanto per l'Occidente cristiano, dove si acuì la crisi del dominio bizantino per cui il papato si orientò verso il regno franco, rompendo così l'equilibrio che fino ad allora si era mantenuto tra Oriente e Occidente.
Domenica 26 Febbraio 2012
Si fa memoria:
Domenica I di Quaresima: dell'Ortodossia


e San Porfirio, vescovo di Gaza

Sinassario
In questa prima domenica della Grande Quaresima dei digiuni nelle Chiese di tradizione bizantina si commemora il ristabilimento del culto delle iconi. In oriente, per più di cento anni, a partire dal regno di Leone Isaurico (717-741) e fino al regno di Teofilo (829-842), la Chiesa fu sconvolta dalla persecuzione degli iconoduli, i difensori del culto delle immagini, da parte degli iconoclasti, che volevano distruggere le immagini sacre.
L'origine della diatriba e del pensiero iconoclasta è da ricondurre al divieto di produrre immagini di Dio, come espresso nelle scritture dell'Antico Testamento (vedi: Esodo 20,4-5 e Deuteronomio 4,15-19), al disgusto provato da molti a causa dalla degenerata venerazione delle immagini, che in molti casi erano considerate veri e propri idoli e al rapporto con il nascente e dilagante Islam.
Dopo alterne e dolorose vicende, dove sostenitori e avversatori del culto delle immagini ebbero in mano il potere politico, nel 787 si giunse alle definizioni del Concilio II di Nicea, dove fu stabilito il principio che, con l'incarnazione del Verbo di Dio, Dio è diventato visibile, sperimentabile e quindi raffigurabile: con l'incarnazione del Verbo il divieto di non fare immagini di Dio è stato superato.
Ma una completa e definitiva soluzione della questione iconoclasta si ebbe con la morte dell'imperatore iconoclasta Teofilo, quando la sua vedova Teodora, dopo aver deposto il patriarca Giovanni Grammatico, convocò, assieme al figlio Michele e al nuovo patriarca Metodio, per l'11 marzo 843 un sinodo a Costantinopoli, dove si ristabilì definitivamente il culto delle immagini sacre. La regina, dopo aver venerato l'Icona della Madre di Dio, davanti all'assise sinodale enunciò queste parole: "Se qualcuno non offre rispetto al culto delle sacre Iconi, non adorando loro come se fossero degli dei, ma venerandole con amore come immagini dell'archetipo, sia anatema". In seguito, la prima domenica dei digiuni, lei e il figlio Michele fecero una processione con tutto il clero e la corte imperiale portando tra le mani le restaurate iconi, che di nuovo furono poste nelle chiese per essere venerate.
Da allora le Chiese di tradizione bizantina nella prima domenica di Quaresima portano in processione le iconi e proclamano il Synodicon, ossia una rielaborazione degli atti del secondo Concilio di Nicea. Questa domenica è detta dell'Ortodossia per il trionfo della vera dottrina sull'eresia iconoclasta che, distruggendo le immagini, negava l'incarnazione del Verbo di Dio.Si fa memoria del ripristino del culto delle sante e venerabili icone.



SABATO — VESPRO
Tono pl. 2. Riposta nei cieli.
I profeti ispirati dal tuo Spirito, Signore, * avevano preannunciato che tu, l’inafferrabile, * rifulso senza principio, prima della stella del mattino°, * dal grembo immateriale e incorporeo del Genitore, * saresti divenuto bambino, * assumendo carne da donna ignara di nozze, * unendoti agli uomini * e mostrandoti a quanti sono sulla terra. * Grazie a loro, concedi pietoso la tua illuminazione * a quanti cantano la tua augusta e ineffabi­le risurrezione.
I profeti dal divino parlare, * annunciandoti con la parola * e onorandoti con le opere, * hanno raccolto il frutto della vita senza fine: * avendo infatti perseverato, o Sovrano, * nel rifiutare il culto alla creatura * al posto di te, il Creatore°, * hanno abbandonato il mondo conforme al vange­lo, * e sono divenuti conformi alla tua passione che avevano infatti preannunciata. * Per le loro preghiere, rendici degni di affrontare irreprensibili * lo stadio della continenza, * o unico misericordiosissimo.
Tu che per la tua divina natura non puoi essere circo­scritto, * essendoti alla fine dei tempi incarnato, o Sovra­no, * ti sei degnato di venire circoscritto: * assumen­do infatti la carne, * ne hai accettato tutte le proprietà. * Noi dunque dipingendo la figura che intende rappresentarti, * rendiamo omaggio a tali immagi­ni in vista di colui a cui rimandano, * innalzandoci all’amore per te, * e ne attingiamo la grazia delle guarigioni, * seguendo le divine tradi­zioni degli apostoli.
La Chiesa di Cristo ha riottenuto a suo preziosissimo ornamento * l’esposizione piena di gioia delle venerabili e sante icone * del Cristo Salvatore, della Madre-di-Dio e di tutti i santi, * quale preziosissimo ornamento: * essa ne viene per grazia ralle­grata e illuminata, * respinge, scacciandola, la turba degli eretici * ed esultando glorifica il Dio amico degli uomini * che per lei ha sopportato la volontaria passio­ne°.

Gloria. Tono pl. 2.
La grazia della verità nuovamente risplende. * Ciò che un tempo era prefigurato nell’ombra, * ora si è aper­tamente compiuto: * poiché ecco, la Chiesa si riveste dell’icona corporea del Cristo * come di ultramondano abbigliamento, * delineando la figura della tenda della testimo­nianza°, * e tiene salda la fede ortodossa, * affinché possedendo anche l’icona di colui a cui rendiamo culto, * non ci accada di sviar­ci. * Si rivestano di vergogna quanti cosí non credono°: * per noi è infatti gloria * la forma di colui che si è incarna­to, * è piamente venera­ta, non idola­trata. * Offren­dole il nostro omaggio, * gridiamo, o fedeli: * O Dio salva il tuo popolo, * e benedici la tua eredità°.
Ora e sempre. Theotokíon, il primo del tono. Ingresso. Luce gioiosa. Prokímenon.
Allo stico, stichirá dall’októichos.
Gloria. Idiómelon. Tono 2.
Quanti dall’empietà siamo passati alla pietà * e siamo stati illuminati dalla luce della conoscenza, * battiamo le mani come dice il salmo°, * offrendo a Dio una lode grata; * e veneriamo con onore le sacre icone * del Cristo, della tutta pura e di tutti i santi, * poste alle pareti, su tavole e su sacri arredi, * respingendo la religione empia dei non ortodossi. * L’onore dato alle icone, infatti, * è rivolto al prototipo, come dice Basi­lio; * chiediamo dunque che per l’intercessione dell’imma­colata Madre tua, * o Cristo Dio nostro, * e per l’in­tercessione di tutti i santi, * ci sia data la grande misericordia°.
Ora e sempre. Theotokíon. Stesso tono.
O meraviglia nuova * che supera tutte le meraviglie antiche! * Chi mai ha conosciuto una madre * che senza conoscer uomo ha partorito * e che tiene tra le braccia * colui che abbraccia tutto il creato? * Volere di Dio è questo parto. * Non cessare di scongiurare per quelli che ti onorano * colui che come bimbo con le tue braccia hai portato ­* e che tratti con fami­gliarità di madre, * o tutta pura, * affinché abbia pietà delle anime nostre * e le salvi.
Apolytíkion. Tono 2.
La tua immacolata icona veneriamo, * o buono, * chie­dendo perdono per le nostre colpe, * o Cristo Dio, * perché volontariamente, nel tuo beneplacito°, * sei sali­to nella carne sulla croce * per liberare dalla schiavi­tú del nemico * coloro che avevi plasmato. * Per questo a te gridiamo grati: * Hai colma­to di gioia l’uni­verso, * o Salvatore nostro, * quando sei venuto per salvare il mondo.
Theotokíon, stessa melodia.
Trascendono il pensiero tutti i tuoi miste­ri, * tutti sono piú che gloriosi, * o Madre-di-Dio; * nel sigillo della purezza, * custodita nella verginità, * tu sei stata riconosciuta * vera Madre del Dio vero: * suppli­ca­lo dunque * per la salvezza delle anime nostre.
MATTUTINO-ORTHROS

SABATO DELLA PRIMA SETTIMANA
Lo straordinario prodigio operato dal santo e glorio­s­o megalomartire Teodoro Tirone mediante i kóllyva.
Dopo l’exápsalmos, si salmeggia Il Signore è Dio col tono 2., quindi l’apolytíkion di san Teodoro.
Apolytíkion del santo. Tono 2.
Grandi le opere della fede! * Nella sorgente della fiamma, * come ad acque di ristoro°, * il santo martire Teodoro esultava: * olocausto arso dal fuoco, * è stato offerto alla Triade * quale dolce pane. * Per le sue preghiere, o Cristo Dio, * abbi pietà di noi.
Gloria, lo stesso tropario, ora e sempre. Theotokíon.
Trascendono il pensiero tutti i tuoi miste­ri, * tutti sono piú che gloriosi, * o Madre-di-Dio; * nel sigillo della purezza, * custodita nella verginità, * tu sei stata riconosciuta * vera Madre del Dio vero: * suppli­ca­lo dunque * per la salvezza delle anime nostre.
Dopo la prima sticología, kathísmata dall’októichos.
Dopo la seconda sticología, kathísmata di san Teodoro.
Tono 3. La confessione della fede divina.
Ardente di fede, nella tua ortodossia, * hai estinto l’er- rore della falsa fede, * hai annientato l’ateismo degli idoli, * e, divenuto olocausto divino, * irrori di prodigi i confini della terra. * O martire glorioso, supplica il Cristo Dio * di farci dono della grande misericordia°.
Un altro káthisma del santo, stessa melodia.
Il Signore che ti ha reso forte nelle lotte * ti ha dato come dono divino * a tutto il mondo per la salvezza, * per sanare le malattie della nostra anima * e per allonta­nare le sofferenze del corpo. * O martire Teodoro, * supplica Cristo di farci dono * della grande misericordia°.
Theotokíon. Stesso tono. Attonito di fronte alla bellezza.
O Vergine immacolata * che hai portato nel tuo grembo * il Dio che niente può contene­re, * il Verbo enipo­stati­co e Figlio consu­stanziale * che prima dei secoli ineffa­bil­men­te dal Padre è sor­to: * supplicalo, insieme ai profeti e ai martiri, * ai monaci, agli asceti e ai giu­sti, * di donarci la remissione delle colpe.
Dopo il salmo 50, il canone, poema del venerabile Giovan­ni, metropolita di Eucaito.
Ode 1.: Cantico di Mosè. Tono 4. Aprirò la mia bocca.
Colui che è oltre ogni cosa ha posto te, * che ineffabil­- men­te lo hai generato, * al di sopra dei suoi eletti: * perciò noi oggi, celebrando questo incoronato, * o degna di ogni canto, * a te per prima inneggiamo.
Voglio cantare con inni Teodoro, * il grande fra i martiri, * il fulgentissimo atleta, * famosissimo e celeberrimo, * insigne per i prodigi da un capo all’altro della terra.
È sorto tra i giorni di penitenza * un giorno di festa, * che ne ha allietato la gravità, * facendo brillare per grazia da lontano * i preludi vigilari del martire divino.
Irrora la Chiesa con la rugiada purificatrice del suo sangue, * questa santa vittima accolta da colui che fu immola­to * e che ha accolto in sacrificio * costui che ha lottato per la sua divina gloria.
Theotokíon.
Si è ritenuto cosa bella far festa, * anche se fuori tempo: * infatti la Sovrana che ha fatto bello l’universo, * anche ora ha mostrato di unirsi a questa memoria * per colui che per lei ha combattuto fino al sangue.
Katavasía.
Aprirò la mia bocca, * si colmerà di Spirito°, * e profe- rirò un discorso * per la regina Madre°: * mi mo­strerò gioiosamente in festa * e canterò lieto * le sue meravi­glie.
Dopo l’ode 3., káthisma. Tono pl. 4.
Ineffabilmente concepita in grembo.
Indossata tutta l’armatura divina, * e distrutta la sedu­- zio­ne degli idoli, * hai indotto gli angeli a far l’elogio delle tue lotte: * poiché tu, con l’intelletto acceso dal divino amore, * hai disprezzato da forte la morte nel fuoco; * per questo a buon diritto puoi distribuire a chi chiede * i doni divini, le grazie di guarigione. * O vittorioso Teodoro, * intercedi presso il Cristo Dio * affinché doni la remissione delle colpe * a quanti festeg­giano con amore la tua santa memoria.
Gloria. Stessa melodia.
Senza lasciarti piegare dalle lusinghe di Massimino, * prendendo forza dalle parole di Cristo, * hai incenerito col fuoco il santuario degli idoli, * hai splendidamente vinto da atleta l’avversario, * e, come dice il profeta, * sei passato per il fuoco come per l’acqua°; * per questo sei degno di far zampillare * per quanti lo chiedo­no con fede, * le guarigi­oni che sono ricompensa delle tue lotte. * O vitto­rioso Teodoro, intercedi presso il Cristo Dio, * affinché doni la remissione delle colpe * a quanti festeg­giano con amore * la tua santa memoria.
Ora e sempre. Theotokíon, stessa melodia.
Come sposa tutta immacolata del Creatore, * come Madre ignara d’uomo del Redentore, * come colei che è ricettacolo dell’Altissi­mo, * o degna di ogni canto, * affréttati a strappare alla malvagità dei demoni * colui che è sordido albergo di iniquità * ed è coscien­temente divenuto zimbello dei demoni, * e rendimi, con la virtú, fulgido tabernacolo. * O Vergine intatta che hai accolto la luce, * dissipa la nube delle passioni, * e rendimi degno del superno splendore * e del limpido raggio della tua luce senza sera.
Ode 6.: Cantico di Giona. Celebrando questa divina.
Non possono digiunare, o Salvatore, * gli amici e i fi- gli del tuo talamo°: * essi infatti ospitano e servono te, lo sposo, * che sei presente insieme alla Madre tua e al tuo amico.
Ha apostatato dal Dio che salva, * ha apostatato anche dal senno, quell’uomo esecrabile, * e nella sua follia ha lottato contro la fede: * ma di fronte a questa ha trovato il glorioso.
Soffrendo è divenuto piú sapiente, il valoroso, * e agendo, è divenuto piú ardente: * dopo aver infatti bella­mente lottato e vinto i tiranni, * neppure dopo la morte ha abbandonato la sua bella impresa.
Theotokíon.
Liberàti oggi, o Sovrana, * dal pericolo che minacci­ava le nostre anime, * grazie a un miracolo del tuo vitto­rioso, * conforme alla tua divina provvidenza, * a entrambi abbiamo attribuito la grazia.
Katavasía.
Celebrando questa divina * e venerabilissima festa del la Madre-di-Dio, * o voi che avete senno divino, venite, * battia­mo le mani, * glorificando Dio * che da lei è stato partorito.
Kondákion. Idiómelon. Tono pl. 4.
Accolta in cuore la fede di Cristo, * come indossando una corazza, * hai calpestato le potenze avverse, * o grande lottato­re, * e sei stato coronato per l’eternità * con una celeste corona, * quale invincibile.
Ikos. Tu solo sei immortale.
O tu che sei portato su trono di luce, * noi a te con fede * inneggiamo grati: * perché ci hai fatto il grande dono di Teodoro, * generoso nelle lotte e tre volte beato in vita, * soldato difensore della veri­tà * che con pio pensiero possedeva il Cristo * e che da forte ha vinto ­il fraudolento, * quale invincibile.
Sinassario del minéo, poi il seguente.
Lo stesso giorno, il sabato della prima settimana dei digiuni, festeggiamo con i kóllyva lo straordinario miracolo del santo e glorioso megalomartire Teodoro Tirone.
Per la sua intercessione, o Dio, abbi pietà di noi e salvaci. Amen.
Ode 9.: Cantico della Madre-di-Dio e di Zaccaria.
Il tuo parto.
Accorre da ogni parte la folla * alla tenda della testimo­ni­anza°: * in essa magnifichiamo, insieme alla Sovrana di tutti, * la grazia là inabitante * di colui che piú di tutti i martiri * ha brillato di gloria.
Sii forte, Chiesa di Cristo, * e vinci quanti fanno guerra invano: * gli amici di Cristo, infatti, * ti assistono tanto presenti quanto lontani, * come questo valoroso * per il quale celebri le feste di rendimento di grazie.
I fatti mostrano * come colui che un tempo fu creduto essere morto, * vive invece anche dopo la morte * e ancora difende la fede con lo stesso zelo: * e noi che di lui siamo ricchi, * lo magnifichiamo come benefattore.
Theotokíon.
Io ti pongo quale divino sigillo agli inni, * tu che sei il libro di Dio sigillato°, * e raccolgo in te le lodi, o Vergine, * glorificando cosí ancor piú il tuo martire.
Katavasía.
Ogni abitante della terra esulti nello spirito, * recan­- do la sua fiaccola; * sia in festa la stirpe degli intel­letti imma­teriali, * celebrando la sacra solennità della Madre-di-Dio, * e acclami: * Gioisci, o beatissima, * o Madre-di-Dio pura, * o sempre Vergine.
Exapostilárion. Con i discepoli conveniamo.
O santo, * ora che, incoronato, stai presso il trono del Cristo con gli angeli, * e ti sazi, o vittorioso, * della luce che di là promana, * intercedi continuamen­te per la pace del mondo * e per la salvezza di quanti piamente celebriamo * la tua luminosa memoria, * o felicissimo Teodoro, * magnifico martire.
Theotokíon, stessa melodia.
Il Signore, o Madre-di-Dio, * volendo richiamare dalla corruzione, come solo egli sa, * il mondo che si perdeva, * ha preso dimora nel tuo grembo. * Noi dunque che abbiamo tutti trovato salvezza, * ti salutiamo col gloriosissimo ‘Gioisci’ dell’angelo°, * o benedetta fra tutte le donne°: * tu hai infatti generato la gioia al mondo.
Alle lodi, 4 stichi e i seguenti prosómia del santo.
Tono 1. Esultanza delle schiere celesti.
Raduniamoci concordi, fedeli, * per celebrare con mi- stici cantici * il piú insigne del superno esercito, * saldo nel combattimento della nostra pia fede, * e diciamo: * O martire di Gesú, degno di ammirazione, * prega per quanti ti onorano.
Conforme al nome che giustamente porti, * vero dono di Dio, * hai donato felicità a tutti i tribolati, * o Teodoro tre volte beato: * poiché chiunque si accosta al tuo tempio con verità, * ricevendo gioiosamente in cambio i tuoi prodigi, * dà gloria a Cristo.
Con tutte le tue forze, * hai accumulato per te * la ricchezza e lo splendore della pietà * mediante le fatiche della lotta * e hai cosí offerto a Cristo * un dono ac­cetto, * inverando con zelo nelle opere * il nome di ‘do­no di Dio’ * che avevi ricevuto.
Dilettiamoci tutti * della luminosissima solennità * del martire divino, * e allietiamoci con fede, o amici della festa, * onorando la gioiosa festa del suo martirio, * e celebrando con canti Gesú, * che ha glorificato la sua memoria.
Gloria. Tono pl. 2.
Dono di santità * e ricchezza di vita divina * sei apparso al mondo, * o Teodoro: * e Cristo ha glorificato, o sapiente, * la tua memoria, nella quale noi fedeli, * concordi e gioiosi, * celebriamo gli agoni delle tue lotte.
Ora e sempre. Theotokíon. Lo stesso tono.
O Madre-di-Dio, tu sei la vera vite * che ha prodotto il frutto della vita°. * Noi ti imploriamo: * intercedi, o Sovrana, * insieme con il vittorioso e tutti i santi, * per­ché sia fatta misericordia * alle anime no­stre.
Alle lodi, 3 stichirá idiómela del santo. Tono 4.
Gioiosamente fanno coro nel tuo santuario * le folle dei martiri, o vittorioso Teodoro, * e le schiere degli angeli applaudono * ai combattimenti della tua costanza: * lo stesso Cristo datore delle corone è presente * per elargi­re con la sua destra a quanti ti cantano * i carismi che arricchiscono. * Tu cercavi colui che amavi, * e, trova­to­lo, ti sei unito a colui che avevi amato: * pregalo di salvare e illuminare le anime nostre.
Stico: Gioirà il giusto nel Signore e spererà in lui.
È ora giunto per noi * il puro digiuno tutto immaco­la­to, * e ha portato con sé la festa dei prodigi del martire: * col digiuno ci purifichiamo infatti * dalle brutture e dalle sozzure dell’anima, * e grazie ai segni e alle lotte dei màrtiri, * ci facciamo ­generosi e forti contro le passioni. * Illuminàti dunque sia dalla grazia della sacra continenza, * sia dalle opere prodigiose del martire Teodoro, * ci corroboriamo nella fede in Cristo, * pregandolo di concedere salvezza alle anime nostre.
Stico: Il giusto fiorirà come palma, si moltiplicherà come cedro del Libano.
Con la tua franchezza di martire davanti a Dio, * o Teodoro, * hai reso vana la macchinazione dell’apostata * contro la fede di Cristo: * ti sei fatto difensore del popolo fedele, * liberandolo con una tremenda apparizione * dai cibi contaminati con sacrifi­ci idolatrici. * Ono­ran­doti dunque sia come distruttore degli idoli, * sia come salvatore e custode del gregge di Cristo * e nostro pro­tet­tore pronto ad esaudire, * noi preghiamo tra i canti * perché grazie a te siano donati perdono e illuminazione * alle anime nostre.
Gloria. Tono pl. 4.
Piamente armato * di atletica fortezza, * o vitto­rioso di Cristo, * lottando misticamente per il culto razionale°, * con la forza di Cristo * hai mostrato l’empietà degli idoli * e la debolezza crudele dei tiran­ni, * disprezzando i tormenti * e il fuoco effimero. * Tu dunque che hai il nome e la realtà * dei doni divi­ni, * salva da ogni sventura, * con la tua intercessio­ne, * quanti celebrano la tua memoria.
Ora e sempre. Theotokíon. Stesso tono.
Accogli, Sovrana, * le preghiere dei tuoi servi, * e liberaci da ogni angustia e tribolazione.

Oggi Primo sabato della Santa e Grande Quaresima

Sabato 25 Febbraio 2012
ricorre anche:
San Tarasio, arcivescovo di Costantinopoli
Si fa memoria:
Si commemora con i collivi il miracolo compiuto da san Teodoro Tiron
Sinassario
Vangelo
Epistola
La tradizione della benedizione dei collivi, mangiati alla fine della prima settimana della Grande Quaresima, è collegata all'aiuto dato ai Cristiani di Costantinopoli da san Teodoro Tiron attraverso una sua miracolosa apparizione.Nel 362 l'imperatore Giuliano l'Apostata intuendo che i Cristiani al termine della prima settimana di rigoroso digiuno avrebbero avuto molta fame, diede ordine che nei mercati di Costantinopoli tutto il cibo in vendita fosse contaminato con il sangue degli animali sacrificati agli idoli. Ciò rese il cibo inadatto alla regola del digiuno della Quaresima, sia perché i cristiani durante la Quaresima non potevano mangiare la carne e suoi derivati, sia perché, più in generale, non era consentito cibarsi di alimenti provenienti da sacrifici fatti agli idoli.Ed ecco che, in aiuto dei Cristiani, accorse san Teodoro Tiron che apparve in sogno a Eudossio, Arcivescovo di Costantinopoli, suggerendogli che la gente quel giorno non mangiasse il cibo comprato al mercato, ma solo collivi, cioè grano bollito misto a miele. Come risultato, nelle chiese di tradizione bizantina, il sabato della prima settimana dei digiuni della Grande Quaresima si commemora, con i collivi, il miracolo dell'apparizione di san Teodoro Tiron.
Mc 2,23-3,5
In giorno di sabato Gesù passava per i campi di grano, e i discepoli, camminando, cominciarono a strappare le spighe. I farisei gli dissero: «Vedi, perché essi fanno di sabato quel che non è permesso?». Ma egli rispose loro: «Non avete mai letto che cosa fece Davide quando si trovò nel bisogno ed ebbe fame, lui e i suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio, sotto il sommo sacerdote Abiatàr, e mangiò i pani dell'offerta, che soltanto ai sacerdoti è lecito mangiare, e ne diede anche ai suoi compagni?». E diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato». Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Mettiti nel mezzo!». Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». Ma essi tacevano. E guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata.
2 Tim 2,1-10
Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri.Insieme con me prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù. Nessuno però, quando presta servizio militare, s'intralcia nelle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che l'ha arruolato. Anche nelle gare atletiche, non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole. L'agricoltore poi che si affatica, dev'essere il primo a cogliere i frutti della terra. Cerca di comprendere ciò che voglio dire; il Signore certamente ti darà intelligenza per ogni cosa.Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.




mercoledì 22 febbraio 2012

AVVISO


ORARIO DELLE CELEBRAZIONI QUARESIMALI

OGGI 23 Febbraio 2012 prima settimana della Santa Grande Quaresima
MERCOLEDI'GIORNO DI DIGIUNO E ASTINENZA
Ore 18.00: Divina Liturgia dei Presantificati(Projasmena)
stesso orario per ogni Venerdi
La preghiera di Sant'Efrem il Siro

Sant’Efrem ha composto una piccola e incisiva preghiera che la Chiesa Ortodossa e la Chiesa Cattolica Orientrale recita ogni giorno nelle sue ufficiature quaresimali. Da essa si comprende la prospettiva nella quale si pone il cristiano ortodosso praticante. Tutto ciò che ripiega la persona su se stessa (ozio, curiosità, superbia, loquacità, giudizio del fratello) viene rigettato. Viene fermamente richiesto quanto appartiene alla pura oblatività (saggezza, umiltà, pazienza, amore) nella serena considerazione della propria creaturalità (vedere le mie colpe). Naturalmente tutto ciò non è finalizzato ad acquisire una moralità che edifichi gli altri. Si può dire che sia paragonabile all'attenzione del funanbolista il quale, se vuole attraversare la corda e giungere alla fine del suo esercizio, prende le dovute precauzioni. Queste precauzioni sono ripresentate alla memoria, durante il momento liturgico, e domandate a Dio. Senza di esse non c'è spirito quaresimale ma non c'è neppure Ortodossia dal momento che l'Ortodossia è una realtà che si vive e che, alla fine, coincide con il Cristo stesso.
Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di ozio, di curiosità, di superbia e di loquacità.
Segue una grande metania (prostrazione)
Concedi invece al tuo servo uno spirito di saggezza, di umiltà, di pazienza e di amore.
Segue una grande metania
Sì, Signore e Sovrano, dammi di vedere le mie colpe e di non giudicare il mio fratello; poiché tu sei benedetto nei secoli dei secoli. Amin.
Dopo questo versetto altre 12 piccole metanie dicendo per ciascuna:
O Dio, sii propizio a me peccatore e abbi pietà di me.
Di nuovo una grande metania e l’ultimo versetto della preghiera:
Sì, Signore e Sovrano, dammi di vedere le mie colpe e di non giudicare il mio fratello; poiché tu sei benedetto nei secoli dei secoli. Amin.

La speranza della vita nuova in Cristo
"Fa' risplendere, o Signore, il lume del tuo sapere e caccia le tenebre della nostra mente, perché ne sia illuminata e ti serva con rinnovata purezza. Il sorgere del sole dà principio all'attività dei mortali; fa', Signore, che perduri nelle nostre menti un giorno che non conosca fine. Concedi di scorgere in noi la vita della risurrezione, e nulla distolga il nostro spirito dalle tue gioie. Imprimi in noi, o Signore, il segno di questo giorno che non trae inizio dal sole, infondendoci una costante ricerca di te. Ogni giorno ti accogliamo nei tuoi sacramenti e ti riceviamo nel nostro corpo; facci degni di sperimentare nella nostra persona la risurrezione che speriamo. Con la grazia del Battesimo abbiamo nascosto nel nostro corpo il tuo tesoro, quel tesoro che si accresce alla mensa dei tuoi sacramenti; dacci di gioire nella tua grazia. Noi possediamo in noi stessi, perché lo attingiamo alla tua mensa spirituale, il tuo memoriale; fa' che lo possediamo pienamente nella rinascita eterna. Quanto sia grande la nostra bellezza, ce lo faccia comprendere quella bellezza spirituale che, pur nella nostra condizione di mortali, la tua volontà immortale suscita. La tua crocifissione, nostro Salvatore, pose fine alla vita dei corpo; concedici di crocifiggere spiritualmente la nostra anima. La tua risurrezione, o Gesù, faccia crescere in noi l'uomo spirituale; il contatto con i tuoi misteri sia per noi come uno specchio che ce lo fa conoscere. La tua economia divina, Salvatore nostro, è simbolo del mondo spirituale; concedici di percorrerlo come uomini spirituali. Non privare, Signore, la nostra mente della tua rivelazione spirituale, e non sottrarre alle nostre membra il calore della tua dolcezza. La natura mortale del nostro corpo ci conduce alla morte; riversa su di noi il tuo amore spirituale e purifica il nostro cuore dalle conseguenze della nostra condizione mortale. Dacci, o Signore, di affrettarci verso la nostra città e -come Mosè sul Sinai- fa' che la possediamo attraverso la tua manifestazione."Dai « Discorsi » di sant'Efrem, diacono (Sermo 3, De fine et admonitione 2. 4-5: Opera, edizione Lamy 3, 216-222)
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MESSAGGIO DEL SANTO PADREBENEDETTO XVIPER LA QUARESIMA 2012
«Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone»
(Eb10,24)

Fratelli e sorelle,
la Quaresima ci offre ancora una volta l'opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. Infatti questo è un tempo propizio affinché, con l'aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, rinnoviamo il nostro cammino di fede, sia personale che comunitario. E' un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale.
Quest’anno desidero proporre alcuni pensieri alla luce di un breve testo biblico tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24). E’ una frase inserita in una pericope dove lo scrittore sacro esorta a confidare in Gesù Cristo come sommo sacerdote, che ci ha ottenuto il perdono e l'accesso a Dio. Il frutto dell'accoglienza di Cristo è una vita dispiegata secondo le tre virtù teologali: si tratta di accostarsi al Signore «con cuore sincero nella pienezza della fede» (v. 22), di mantenere salda «la professione della nostra speranza» (v. 23) nell'attenzione costante ad esercitare insieme ai fratelli «la carità e le opere buone» (v. 24). Si afferma pure che per sostenere questa condotta evangelica è importante partecipare agli incontri liturgici e di preghiera della comunità, guardando alla meta escatologica: la comunione piena in Dio (v. 25). Mi soffermo sul versetto 24, che, in poche battute, offre un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l'attenzione all'altro, la reciprocità e la santità personale.
1. “Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.
Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).
L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui o per lei il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). Il bene è ciò che suscita, protegge e promuove la vita, la fraternità e la comunione. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch'egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità. La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di «anestesia spirituale» che rende ciechi alle sofferenze altrui. L’evangelista Luca riporta due parabole di Gesù in cui vengono indicati due esempi di questa situazione che può crearsi nel cuore dell’uomo. In quella del buon Samaritano, il sacerdote e il levita «passano oltre», con indifferenza, davanti all’uomo derubato e percosso dai briganti (cfr Lc 10,30-32), e in quella del ricco epulone, quest’uomo sazio di beni non si avvede della condizione del povero Lazzaro che muore di fame davanti alla sua porta (cfr Lc 16,19). In entrambi i casi abbiamo a che fare con il contrario del «prestare attenzione», del guardare con amore e compassione. Che cosa impedisce questo sguardo umano e amorevole verso il fratello? Sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di «avere misericordia» verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero. Invece proprio l’umiltà di cuore e l'esperienza personale della sofferenza possono rivelarsi fonte di risveglio interiore alla compassione e all'empatia: «Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione» (Pr 29,7). Si comprende così la beatitudine di «coloro che sono nel pianto» (Mt 5,4), cioè di quanti sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. L'incontro con l'altro e l'aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.
Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recrimina-zione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.
2. “Gli uni agli altri”: il dono della reciprocità.
Tale «custodia» verso gli altri contrasta con una mentalità che, riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la considera in prospettiva escatologica e accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà individuale. Una società come quella attuale può diventare sorda sia alle sofferenze fisiche, sia alle esigenze spirituali e morali della vita. Non così deve essere nella comunità cristiana! L’apostolo Paolo invita a cercare ciò che porta «alla pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19), giovando al «prossimo nel bene, per edificarlo» (ibid. 15,2), senza cercare l'utile proprio «ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). Questa reciproca correzione ed esortazione, in spirito di umiltà e di carità, deve essere parte della vita della comunità cristiana.
I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia, vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò significa che l'altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione:la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, si verifica tale reciprocità: la comunità non cessa di fare penitenza e di invocare perdono per i peccati dei suoi figli, ma si rallegra anche di continuo e con giubilo per le testimonianze di virtù e di carità che in essa si dispiegano. «Le varie membra abbiano cura le une delle altre»(1 Cor 12,25), afferma San Paolo, perché siamo uno stesso corpo. La carità verso i fratelli, di cui è un’espressione l'elemosina - tipica pratica quaresimale insieme con la preghiera e il digiuno - si radica in questa comune appartenenza. Anche nella preoccupazione concreta verso i più poveri ogni cristiano può esprimere la sua partecipazione all'unico corpo che è la Chiesa. Attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli. Quando un cristiano scorge nell'altro l'azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16).
3. “Per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone”: camminare insieme nella santità.
Questa espressione della Lettera agli Ebrei (10,24) ci spinge a considerare la chiamata universale alla santità, il cammino costante nella vita spirituale, ad aspirare ai carismi più grandi e a una carità sempre più alta e più feconda (cfr 1 Cor 12,31-13,13). L'attenzione reciproca ha come scopo il mutuo spronarsi ad un amore effettivo sempre maggiore, «come la luce dell'alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio» (Pr 4,18), in attesa di vivere il giorno senza tramonto in Dio. Il tempo che ci è dato nella nostra vita è prezioso per scoprire e compiere le opere di bene, nell’amore di Dio. Così la Chiesa stessa cresce e si sviluppa per giungere alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4,13). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell'amore e delle buone opere.
Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui (cfr Mt 25,25s). Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l'invito sempre attuale a tendere alla «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001], n. 31). La sapienza della Chiesa nel riconoscere e proclamare la beatitudine e la santità di taluni cristiani esemplari, ha come scopo anche di suscitare il desiderio di imitarne le virtù. San Paolo esorta: «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10).
Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone (cfr Eb 6,10). Questo richiamo è particolarmente forte nel tempo santo di preparazione alla Pasqua. Con l’augurio di una santa e feconda Quaresima, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 3 novembre 2011

BENEDICTUS PP. XVI

sabato 11 febbraio 2012

ΚΥΡΙΑΚΗ ΤΗΣ ΑΠΟΚΡΕΩ
Τῼ ΣΑΒΒΑΤῼ ΕΣΠΕΡΑΣ

ΕΙΣ ΤΟ ΛΥΧΝΙΚΟΝ

Μετὰ τὸν Προοιμιακὸν Ψαλμόν, ἡ Συνήθης Στιχολογία, εἰς δὲ τό, Κύριε ἐκέκραξα, ἱστῶμεν Στίχ. ι' καὶ ψάλλομεν Στιχηρὰ Ἀναστάσιμα τῆς Ὀκτωήχου στ' καὶ τὰ ἐφεξῆς Προσόμοια τοῦ Τριῳδίου δ'.
Ἦχος πλ. β' Ὅλην ἀποθέμενοι ΤΟ ΑΚΟΥΤΕ
Ὅταν μέλλῃς ἔρχεσθαι, κρίσιν δικαίαν ποιῆσαι, Κριτὰ δικαιότατε, ἐπὶ θρόνου δόξης σου καθεζόμενος· ποταμὸς πύρινος, πρὸ τοῦ σοῦ Βήματος καταπλήττων ἕλκει ἅπαντας, παρισταμένων σοι, τῶν ἐπουρανίων Δυνάμεων, ἀνθρώπων κρινομένων τε, φόβῳ καθ' ἃ ἕκαστος ἔπραξε· τότε ἡμῶν φεῖσαι, καὶ μοίρας καταξίωσον Χριστέ, τῶν σῳζομένων ὡς εὔσπλαγχνος, πίστει δυσωποῦμέν σε.

Βίβλοι ἀνοιγήσονται, φανερωθήσονται πράξεις, ἀνθρώπων ἐπίπροσθεν, τοῦ ἀστέκτου Βήματος, διηχήσει δέ, ἡ κοιλὰς ἅπασα, φοβερῷ βρύγματι, τοῦ κλαυθμῶνος, πάντας βλέπουσα τοὺς ἁμαρτήσαντας, ταῖς αἰωνιζούσαις κολάσεσι, τῇ κρίσει τῇ δικαίᾳ σου, παραπεμπομένους, καὶ ἄπρακτα, κλαίοντας Οἰκτίρμον· διό σε δυσωποῦμεν ἀγαθέ· Φεῖσαι ἡμῶν τῶν ὑμνούντων σε, μόνε Πολυέλεε.

Ἠχήσουσι σάλπιγγες, καὶ κενωθήσονται τάφοι, καὶ ἐξαναστήσεται, τῶν ἀνθρώπων τρέμουσα, φύσις ἅπασα· οἱ καλὰ πράξαντες ἐν χαρᾷ χαίρουσι, προσδοκῶντες μισθόν λήψεσθαι, οἱ ἁμαρτήσαντες, τρέμουσι δεινῶς ὀλολύζοντες, εἰς κόλασιν πεμπόμενοι, καὶ τῶν ἐκλεκτῶν χωριζόμενοι· Κύριε τῆς δόξης, οἰκτείρησον ἡμᾶς ὡς ἀγαθός, καὶ τῆς μερίδος ἀξίωσον, τῶν ἠγαπηκότων σε.

Κλαίω καὶ ὀδύρομαι, ὅταν εἰς αἴσθησιν ἔλθω, τὸ πῦρ τὸ αἰώνιον, σκότος τὸ ἐξώτερον, καὶ τὸν τάρταρον, τὸν δεινὸν σκώληκα, τὸν βρυγμὸν αὖθις τε, τῶν ὀδόντων, καὶ τὴν ἄπαυστον, ὀδύνην μέλλουσαν, ἔσεσθαι τοῖς ἄμετρα πταίσασι, καὶ σὲ τὸν Ὑπεράγαθον, γνώμῃ πονηρᾷ παροργίσασιν ὧν εἷς τε καὶ πρῶτος, ὑπάρχω ὁ ταλαίπωρος ἐγώ· ἀλλὰ Κριτὰ τῷ ἐλέει σου, σῶσόν με ὡς εὔσπλαγχνος.
Δόξα... Ἦχος πλ. δ'
Ὅταν τίθωνται θρόνοι, καὶ ἀνοίγωνται βίβλοι, καὶ Θεὸς εἰς κρίσιν καθέζηται, ὢ ποῖος φόβος τότε!. Ἀγγέλων παρισταμένων ἐν φόβῳ, καὶ ποταμοῦ πυρὸς ἕλκοντος, τί ποιήσομεν τότε οἱ ἐν πολλαῖς ἁμαρτίαις ὑπεύθυνοι ἄνθρωποι; Ὅταν δὲ ἀκούσωμεν καλοῦντος αὐτοῦ, τοὺς εὐλογημένους τοῦ Πατρὸς εἰς βασιλείαν, ἁμαρτωλούς δὲ ἀποπέμποντος εἰς κόλασιν, τίς ὑποστήσεται τὴν φοβερὰν ἐκείνην ἀπόφασιν; Ἀλλὰ μόνε φιλάνθρωπε Σωτήρ, ὁ Βασιλεὺς τῶν αἰώνων, πρὶν τὸ τέλος φθάσῃ, διὰ τῆς μετανοίας ἐπιστρέψας ἐλέησόν με.

Καὶ νῦν... Θεοτοκίον, τὸ τῆς Ὀκτωήχου

Εἴσοδος, Φῶς Ἱλαρόν, καὶ τὸ Προκείμ. Ὁ Κύριος ἐβασίλευσεν καὶ τὰ λοιπά.

Εἰς τὴν Λιτὴν

Δόξα... Ἰδιόμελον Ἦχος βαρὺς
Τὰς τοῦ Κυρίου γνόντες ἐντολὰς οὕτω πολιτευθῶμεν· πεινῶντας διαθρέψωμεν, διψῶντας ποτίσωμεν, γυμνοὺς περιβαλώμεθα ξένους, συνεισαγάγωμεν, ἀσθενοῦντας, καὶ τοὺς ἐν φυλακῇ, ἐπισκεψώμεθα, ἵνα εἴπῃ καὶ πρὸς ἡμᾶς, ὁ μέλλων κρῖναι πᾶσαν τὴν γῆν· Δεῦτε οἱ εὐλογημένοι τοῦ πατρός μου, κληρονομήσατε, τὴν ἡτοιμασμένην ὑμῖν βασιλείαν.
Καὶ νῦν... Θεοτοκίον
Ὑπὸ τὴν σὴν Δέσποινα σκέπην, πάντες οἱ γηγενεῖς, προσπεφευγότες βοῶμέν σοι, Θεοτόκε ἡ ἐλπὶς ἡμῶν, ῥῦσαι ἡμᾶς, ἐξ ἀμέτρων πταισμάτων, καὶ σῶσον τὰς ψυχάς ἡμῶν.

Ἀπόστιχα τῆς Ὀκτωήχου τὰ κατ' Ἀλφάβητον

Δόξα... Ἦχος πλ. δ'
Οἴμοι μέλαινα ψυχή! ἕως πότε τῶν κακῶν οὐκ ἐκκόπτεις; ἕως πότε τῇ ῥαθυμίᾳ κατάκεισαι; τί οὐκ ἐνθυμῇ τὴν φοβεραν ὥραν τοῦ θανάτου; τί οὐ τρέμεις ὅλη τὸ φρικτόν Βῆμα τοῦ Σωτῆρος; ἆρα τί ἀπολογήσῃ, ἢ τί ἀποκριθήσῃ; τὰ ἔργα σου παρίστανται πρὸς ἔλεγχόν σου, αἱ πράξεις σου ἐλέγχουσι κατηγοροῦσαι. Λοιπὸν ὧ ψυχή, ὁ χρόνος ἐφέστηκε· δράμε, πρόφθασον, πίστει βόησον. Ἥμαρτον Κύριε, ἥμαρτόν σοι, ἀλλ' οἶδα φιλάνθρωπε τὸ εὔσπλαγχνόν σου, ὁ ποιμὴν ὁ καλός, μὴ χωρίσῃς με, τῆς ἐκ δεξιῶν σου παραστάσεως, διὰ τὸ μέγα σου ἔλεος.
Καὶ νῦν... Θεοτοκίον
Ἀνύμφευτε Παρθένε, ἡ τὸν Θεὸν ἀφράστως συλλαβοῦσα σαρκί, Μήτηρ Θεοῦ τοῦ Ὑψίστου, σῶν οἰκετῶν παρακλήσεις, δέχου Πανάμωμε, ἡ πᾶσι χορηγοῦσα, καθαρισμὸν τῶν πταισμάτων, νῦν τὰς ἡμῶν ἱκεσίας προσδεχομένη, δυσώπει σωθῆναι πάντας ἡμᾶς.

Ἀπολυτίκιον Θεοτόκε Παρθένε, καὶ ἡ λοιπὴ Ἀκολουθία τῆς Ἀγρυπνίας. Γίνεται δὲ καὶ Ἀνάγνωσις εἰς τὸν Πραξαπόστολον.
Si fa memoria della seconda e incor­ruttibile parusia del Signore nostro Gesú Cristo
SABATO — VESPRO
Ufficio del vespro delle domeniche, p. 154.
Dopo il salmo introduttivo e la con­sueta sticología, al Signore, ho gridato, 10 stichi con 6 stichirá anastásima dall’o­któichos e i seguenti 4 prosómia.
Tono pl. 2. Riposta nei cieli.
Quando verrai per il giusto giudizio, * o giustissimo Giudice, * seduto sul trono della tua gloria, * mentre un fiume di fuoco scorrendo dal tuo tribunale * colpirà tutti di sbigotti­men­to, * e le potenze cele­sti ti assiste­ranno˚, * e gli uomini, pieni di timore, * saranno giudica­ti, * ciascuno secondo le sue opere˚; * allora sii indul­gente con noi, * e facci degni, o Cristo, * nella tua amorosa com­passione, * della sorte dei salvati: * con fede ti suppli­chiamo.
I libri saranno aperti, * verranno rese pubbliche le opere degli uomini * davanti al tuo insostenibile tribuna­le. * Risuonerà tutta la valle del pianto˚ * di tremendo strido­re di denti * mentre vedrà tutti coloro che avranno peccato * mandati ai tormenti eterni * per il tuo giusto giudizio, * invano piangenti, o pietoso; * noi dunque ti supplichia­mo, o buono: * Sii indulgente con noi che a te cantiamo, * o solo misericordiosissimo.
Suoneranno le trombe, * si svuoteranno le tombe, * e tutta la stirpe umana risorgerà tremante: * quanti avranno fatto il bene * saranno pieni di gioia * nell’at­tesa di ricevere la ricompensa; * quelli che avranno peccato treme­ranno * urlando paurosamente, * mentre verrano mandati al castigo e separati dagli eletti˚. * Signore della gloria, * abbi compassione di noi nella tua bontà, * e facci degni della parte di quanti ti hanno amato.
Piango e mi lamento * quando prendo coscienza del fuoco eterno, * della tenebra esteriore˚, * del tartaro, * del tremendo verme˚, * e ancora dello stridore dei denti * e dell’incessante dolore che colpirà˚ * quanti si saranno macchiati di colpe senza numero * e con la loro volontà cattiva * avranno provocato la tua somma bontà: * fra costoro sono anch’io, il miserabile, * sono anzi il primo di loro: * ma tu, o Giudi­ce, per la tua miseri­cordia salvami, * nella tua amorosa compassione.
Gloria. Tono pl. 4.
Quando saranno posti i troni * e i libri verranno aperti * e Dio si assiderà per il giudizio, * quale timore allora! * Gli angeli assisteranno con timore, * un fiume di fuoco scorrerà davanti a lui˚: * e che faremo allora, * noi uomini rei di molti peccati? * Quando udremo la sua voce chiamare al regno * i benedetti del Padre * e mandare al castigo i peccatori˚, * chi sosterrà quella tremenda senten­za? * Ma tu, o solo Salvatore amico degli uomini, * Re dei secoli˚, * prima che giunga la fine, * convertimi col pentimento, * abbi pietà di me.
Ora e sempre. Theotokíon, il primo del tono.
Ingresso. Luce gioiosa. Prokímenon: Il Signore ha instaurato il suo regno.
Allo stico, stichirá dall’októichos, alfabetici.
Gloria. Tono pl. 4.
Ahimè, anima nera! * Fino a quando rifiuterai di stac- carti dal male? * Fino a quando starai adagiata nell’indolenza? * Perché non pensi alla temibile ora della morte? * Perché non tremi tutta * di fronte al tremendo tribunale del Salvatore? * Che scuse potrai portare, che cosa dirai? * Le tue opere sono lí a tua accusa: * le azioni senza vigore ti accusano. * Ormai, o anima, il tempo è giunto: * corri, fa’ presto, grida con fede: * Ho peccato, Signore, * ho peccato contro di te, * ma conosco, o amico degli uomini, * la tua tenera compassione; * pastore buono, non toglier­mi dalla parte destra˚, * per la tua grande miseri­cordia˚.
Ora e sempre. Theotokíon.
Vergine senza nozze, * che hai ineffabilmente conce­pito Dio nella carne, * Madre del Dio altissimo, * ricevi le invocazioni dei tuoi servi, * o tutta immacola­ta: * tu che a tutti procuri la purificazione delle colpe, * implora per la salvezza di noi tutti, * accet­tando ora le nostre suppliche.
Apolytíkion anastásimon. Gloria. Ora e sempre. Theotokíon e congedo.

Domenica 12 Febbraio 2012
Oggi ricorre anche:
San Melezio arcivescovo di Antiochia
Si fa memoria: Domenica di Carnevale o del Giudizio
Sinassario
Domenica di pre-quaresima il brano evangelico di Matteo 25,31-46 ci propone il tema del giudizio finale davanti al Signore. Il giudizio del Signore verterà sull'amore che noi abbiamo avuto verso il prossimo, verso ogni uomo, indipendentemente dal suo status religioso, sociale o politico (ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi).
Questa domenica viene comunemente detta di Carnevale, poiché alla sera di questo giorno ha inizio l’astensione dalla carne.

venerdì 10 febbraio 2012

11 febbraio
Le trascorse celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell'unificazione italiana hanno avuto, tra gli altri meriti, quello di promuovere una riflessione più meditata sullo storico sviluppo dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia, così come sul contributo offerto dai cattolici alla crescita del Paese. È stata una riflessione che, grazie anche al progressivo decantare delle passioni ed al parallelo affinarsi dei giudizi successivi all'inesorabile trascorrere del tempo, ha messo meglio in luce gli aspetti di un lungo percorso. Dai dissapori iniziali, questo è venuto svolgendosi positivamente, in un crescendo di reciproca stima e collaborazione, arricchendo per più aspetti la società italiana e favorendo nel corpo sociale la crescita di valori identitari, formatisi molto prima dell'unificazione politica e che il cristianesimo aveva largamente contribuito a forgiare.In particolare la riflessione sul passato ha messo in evidenza come la storia dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato unitario, sin dalla realizzazione dell'alto obbiettivo dell'unità nazionale, sia segnata più nel senso della continuità che in quello - comunemente ritenuto - della rottura. Già all'indomani del 20 settembre 1870, infatti, venne avvertita in tutta la sua reale consistenza la assoluta peculiarità della situazione italiana, con l'esigenza di garantire la piena libertà della Santa Sede per la sua alta missione in Italia e nel mondo; una libertà che necessariamente postula anche una piena libertà ed una adeguata condizione giuridica per la Chiesa che è in Italia, di cui il Papa è primate. Non a caso la Legge delle Guarentigie del 13 maggio 1871 si propose di risolvere il problema, e se le soluzioni ivi previste risultarono poi giuridicamente inadeguate, è significativo tuttavia notare che essa fu il risultato politico del superamento di opposti estremismi, indicando la necessità di sottrarre la questione al mero diritto comune.Da questo punto di vista, dunque, i Patti Lateranensi del 1929, di cui celebriamo oggi la ricorrenza, segnarono lo sviluppo nella continuità di un'idea già implicita nelle Guarentigie; sviluppo che fu ulteriore ed ancor più evidente con l'avvento della Costituzione repubblicana del 1948, con le disposizioni contenute nell'articolo 7 e con le garanzie poste per tutti in materia di libertà religiosa. La Carta, infatti, esplicita e sviluppa un'idea italiana di laicità: non conflittuale ma positiva, non di contrapposizione ma di collaborazione, basata su una distinzione tra gli ordini - quello politico e quello religioso - come antidoto ad ogni assolutizzazione della politica così come ad ogni fondamentalismo ideologico o religioso; una laicità caratterizzata dal principio della sana collaborazione.La pace religiosa che si è venuta così costruendo nel tempo ha favorito la pace sociale e la promozione negli animi di una attenzione al bene comune: presupposto dei sentimenti di solidarietà, a livello individuale e di formazioni sociali, che appaiono essenziali per una comunità politica coesa e giusta. Sentimenti di solidarietà che, come notava Alexis de Tocqueville, se sempre necessari, lo sono ancor più in una democrazia, al fine di superare le tentazioni di un particolarismo utilitaristico.La revisione del Concordato del 1984 esprime, per certi aspetti, il momento di più alta, consapevole espressione di questo percorso, laddove, ribadito il principio costituzionale - ma anche conciliare - della indipendenza e sovranità di Chiesa e Stato nei rispettivi ordini, formula l'impegno di entrambe le Parti "al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese".In quanto tale, ovviamente, l'impegno è per il futuro; ma l'espressione non può non essere colta anche come il punto di arrivo di una esperienza che ha dato buona prova e che, perciò, si è desiderato che continuasse nel tempo.La Santa Sede non può che dare atto alla Repubblica Italiana di un sincero e scrupoloso adempimento di quanto pattuito. Da parte sua la Chiesa in Italia ha svolto e continua a svolgere con grande impegno la missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione, che le è propria. Si tratta di un impegno costantemente incoraggiato, promosso e sostenuto dalla parola e dalla sollecitudine del Santo Padre. E tuttavia non si può fare a meno di rilevare che, talora, l'esperienza giuridica rischia di svolgersi secondo direzioni diverse da quelle racchiuse nella volontà pattizia e nel dato normativo. Il pensiero va a certi orientamenti della giurisprudenza che sembrano non tenere adeguatamente conto del sistema ordinamentale nel suo complesso e che rischiano di svuotare di contenuto l'articolo 8 del Concordato, nella parte in cui prevede la delibazione in Italia delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici. Occorre ribadire che l'impegno ivi contenuto è precisamente quello di dare efficacia alle sentenze canoniche, dovendo restare i casi di non delibabilità l'eccezione e non la regola. Il che significa che in sede di delibazione delle sentenze stesse si deve tenere conto di quella "specificità dell'ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine", che non a caso il Concordato richiama.Sempre in tema matrimoniale, sembra ormai divenuto urgente un intervento, di esclusiva competenza del legislatore italiano, che sostituisca la vetusta legge n. 847 del 1929 e detti nuove disposizioni per l'applicazione delle norme concordatarie sul matrimonio. Ciò anche al fine di provvedere, nel caso di matrimoni canonici invalidamente contratti, a più adeguati interventi a favore delle parti più deboli, tenuto conto del mutato contesto sociale ed economico.L'augurio è che anche in una materia la cui regolamentazione costituisce una delle ragioni del Concordato e, al tempo stesso, un suo caposaldo, qual è appunto quella matrimoniale, possa continuare a svolgersi una positiva e sana collaborazione nell'esclusivo interesse della persona umana e della sua libertà religiosa. (©L'Osservatore Romano 11 febbraio 2012)